Api
e miele
Il
miele era un alimento essenziale nella cucina dei galluresi: per la
preparazione di numerosi dolci, come li cucciuléddi di méli e li
gattò, e per accompagnare l’acciuléddi e l’urigliètti; veniva
consumato nei pasti principali insieme ad altri prodotti come il formaggio, la
lattuga e con la màzza frìssa, piatto tipico gallurese a base di panna e
semola di grano duro. Dalla cottura della màzza frìssa si otteneva l’óciu
càsgiu, un olio che veniva conservato in vasetti e poi consumato spalmato
sul pane o sciolto con un po’ di miele, óciu e méli. Molto apprezzato
era il miele a èra, cioè il favo, che veniva fatto a pezzetti e mangiato
a fine pasto, come dolce, o veniva offerto agli ospiti durante le visite.
“Ca scùgni lu méli si lìcca li
dìti”
(Trad.
chi estrae il miele si lecca le dita)
Scugnì significa spremere il favo per
estrarre il miele; quest’operazione veniva fatta con le mani perciò era
inevitabile che chi lo faceva alla fine si leccasse le dita. Si usa, ad
esempio, quando una persona fa da intermediario nella conclusione di un affare
tra due persone; se l’affare viene concluso, una particina spetterà sicuramente
anche lui, che così, figurativamente, si leccherà le dita dopo aver portato a
termine quella data operazione.
“So andèndi cóme l’àbba a lu
bùgnu”
(Trad.
vanno come le api all’alveare)
Lu bùgnu è l’alveare; era un cilindro
fatto in sughero o in legno con all’interno delle astine di ginepro incrociate
che servivano per mantenere la cera che le api depositavano, in modo che non
cadesse per terra. Si usa quando un insieme di persone si dirige come uno
sciame da qualche parte, come le api si dirigono all’alveare dopo aver raccolto
il polline.
Asino
L’asino
era molto diffuso negli stazzi galluresi: veniva usato come mezzo di trasporto,
per trasportare la legna e l’acqua, per andare al mulino, per tirare l’acqua
dal pozzo, per fare girare la mola quando si doveva macinare il grano. Non
tutti però lo avevano, perciò una famiglia lo prestava all’altra quando questa
ne aveva necessità. Se l’asino era ben domato da piccolo non era così ribelle e
testardo come si sente spesso.
“A’ fàttu la risciùta di lu
puddéricu di l’àsinu”
(Trad.
ha fatto la riuscita del puledro dell’asino)
Appena
nato il puledro dell’asino è bellissimo. Si dice, ad esempio, di una persona
che da piccola era carina o brava, ma da grande diventa brutta o cattiva. La
risciùta è il risultato; si dice anche gjà à fàttu una bòna risciùta!,
in senso ironico.
“A
sciuccà lu càpu a l’àsinu ci si rimètti lu saòni e la fatìca”
(Trad.
a lavare la testa all’asino ci si rimette il sapone e la fatica)
Lavare
la testa all’asino è una cosa inutile. Così come rimproverare certe persone è
solo una perdita di tempo.
“Bisògna a lià lu patrònu ùndi
dìci l’àsinu”
(Trad.
bisogna legare il padrone dove dice l’asino)
Di
solito è il padrone che dovrebbe decidere dove legare l’asino; ma essendo
quest’ultimo un animale particolarmente testardo, a volte è lui che impone sul
padrone la propria volontà. Quando si dice ad una persona di fare una cosa ma
questa invece ne vuole fare a tutti i costi un’altra e niente riuscirà a farle
cambiare idea, allora in questo caso le posizioni si rovesciano e sarà l’asino
a decidere dove legare il padrone.
“Ca nàsci àsinu, àsinu e mèzu móri
“
(Trad.
chi nasce asino, muore asino e mezzo)
Una
persona che nasce con poca intelligenza,
non potrà morire intelligente, anzi quando morirà, nel frattempo, sarà
diventata ancora più tonta.
“E’ còm’e dà la cunfittùra a
l’àsinu”
(Trad.
è come dare un confetto all’asino)
Il
confetto era considerato una cosa speciale. Darne uno all’asino è come fare un
regalo ad una persona che non lo merita o non lo apprezza. I confetti prima
venivano usati solo nei matrimoni; quelli più prelibati al posto della mandorla
erano ripieni di liquore, lu risóliu.
“E’ com’e turrà lu càlciu a
l’àsinu”
(Trad.
è come restituire il calcio all’asino)
Dare
un calcio all’asino è una perdita di tempo perché tanto non capisce che lo si
sta punendo per qualcosa che ha combinato. Così, ad esempio, se una persona ci
fa del male, è inutile vendicarsi, meglio lasciar perdere.
“E’ pèggju di tirà l’àsinu pa la
códa!”
(Trad.
è peggio che tirare l’asino per la coda!)
Quando
si tira l’asino per la coda, lui di solito tira dall’altra parte. Si usa quando
una persona è testarda e non c’è verso di farla ragionare; è meglio lasciare
perdere, tanto è tutta fatica sprecata!
“Màggju, tòrra l’àsinu a lu
paddàggju”
(Trad.
maggio, l’asino torna nel pagliaio)
Si
usava quando a maggio faceva ancora particolarmente freddo e anche l’asino era
costretto a rifugiarsi nuovamente nel fienile. Spesso la paglia veniva
conservata nelle conche circostanti lo stazzo.
“Mèddu un àsinu ‘ìu che un duttóri
mòltu”
(Trad.
meglio un asino vivo che un dottore morto)
E’
più utile un asino vivo, per quanto sia testardo, che un dottore morto. Se lo
studio costa talmente tanto da rovinare la vita, meglio restare asini.
“No vi saràni l’àsini trubbìti a
saltìccia!”
(Trad.
non ci saranno gli asini legati con le salsicce)
Trubbì significa applicare delle
pastoie, cioè legare le zampe di un animale ribelle in modo da ostacolarne i
movimenti e quindi non poter, ad esempio, saltare un muro divisorio. L’asino
legato con la salsiccia è il simbolo dell’abbondanza; avere talmente tante
salsicce da poterle addirittura usare per legare gli asini. Si usa, ad esempio,
quando qualcuno non vede l’ora di andare da qualche parte e gli altri lo
avvisano di non aspettarsi di trovare chissà cosa. Una persona che s’è
trubbìta, ha inciampato in qualcosa.
“Ròncu d’àsinu no ànda in ciélu”
(Trad.
raglio d’asino non va in cielo)
Al
raglio dell’asino nessuno fa caso. Se una persona di poco conto augura del male
a un’altra non c’è da preoccuparsi perché, essendo una persona non degna di
essere ascoltata, sicuramente la sua richiesta non sarà presa in
considerazione. Si dice anche unu stéddu a ròncu quando un bambino
piange forte.
Bue
Il
bue era un animale molto usato in passato; era un toro sterilizzato, maciàtu,
per essere più docile e più calmo. Veniva usato per arare i campi e come mezzo
di trasporto insieme al carro. Era necessario però averne almeno una coppia;
infatti si dice che un bóiu sólu no pòni lu gjùu, un bue non basta per seminare;
punì lu gjùu significa, appunto, piantare il grano.
“Bóiu ‘ècchju, sùlchju drìttu”
(Trad.
bue vecchio, solco dritto)
Il
bue di una certa età viene detto bóiu matrìcu, perché ormai è ben domato
e ha imparato a fare il suo lavoro. Una persona anziana, che fa un determinato
lavoro da più tempo, sarà sicuramente più esperta di una giovane.
“Lu bóiu dìci currùtu a l’àsinu”
(Trad.
il bue dà del cornuto all’asino)
Come
nella parabola del Vangelo che insegna che si nota la pagliuzza nell’occhio
altrui e non nel proprio, così anche il bue, non notando le sue, dà del cornuto
all’asino, che corna non ne ha.
Cane
Un
cane era un elemento presente quasi in ogni famiglia; se ben addestrato era
usato come messaggero per portare notizie da uno stazzo all’altro, oltre che
come guardia e per la caccia.
“Ca si còlca cu lu càni si ni pésa
puliciósu”
(Trad.
chi si corica con il cane si sveglia pieno di pulci)
I
cani spesso hanno le pulci che, come si sa, sono contagiose. Se un cane
“pulito” va a spasso con un cane pulcioso, finirà inevitabilmente per essere
contagiato, così come una persona si può lasciare influenzare dalle certe
frequentazioni. Culcàssi e pisassìnni sono, rispettivamente,
coricarsi, andare a dormire, e alzarsi.
“Cal’addóca a dumàni addóca a li
càni”
(Trad.
chi lascia a domani, lascia ai cani)
Adducà
significa conservare, mettere in serbo, da parte, qualcosa, ad esempio
dei soldi o del cibo. Ha due significati: che non bisogna rimandare all’indomani
ciò che potrebbe essere fatto oggi, ma anche che è inutile conservare qualcosa per
il giorno seguente perché si potrebbe guastare e si finirebbe col darla ai
cani.
“Càni lu làssa e macciòni lu
spédda”
(Trad.
lo lascia il cane e la volpe lo scuoia)
A
volte i cani rincorrono gli agnelli per gioco senza fargli del male; poi però arriva
la volpe che invece li sbrana. Le disgrazie non vengono mai da sole; quando si
riesce a scamparne una, subito ne arriva un’altra.
“E còm’e lu càni di l’ultulànu, e
nè màgna e nè làca magnà”
(Trad.è
come il cane dell’ortolano, non mangia e non lascia mangiare)
Spesso
il cane veniva lasciato di guardia nell’orto in modo che né persone né animali
rubassero niente. Il cane faceva il suo dovere, non toccando gli ortaggi e non facendo
avvicinare nessuno. Si dice, ad esempio, quando una persona vuole una cosa
tutta per sé ma poi non la sfrutta, non traendone vantaggio né per sé e
impedendo che non ne abbiano neanche gli altri.
“Lu càni si rispètta pa lu
patrònu”
(Trad.
il cane si rispetta per il padrone)
Spesso
anche chi non è amante degli animali li rispetta per non fare un torto al
padrone, essendo quest’ultimo un amico o parente; così succede quando si
trattano con riguardo delle persone non particolarmente gradite solo perché sono
legate a delle persone a noi care.
“No calcicà la códa a lu càni
drummìtu”
(Trad.
non calpestare la coda al cane che dorme)
Meglio
non farlo, perché non si sa come potrebbe reagire; il cane si potrebbe girare
di scatto e mordere, cogliendoci alla sprovvista. In italiano diremmo non
svegliare il can che dorme, ma il significato è lo stesso. Anche se una
persona è apparentemente calma, non è detto che di fronte ad un’ingiustizia non
risponda all’offesa subita. Calcicà si usa anche nel senso di pigiare; si
dice infatti calcicà l’ùa, calpestare l’uva per ottenere il vino, e calcicà
lu listìncu, per ottenere l’olio di lentisco.
Capra
Le
capre erano molto diffuse, sia perché si adattavano a qualsiasi tipo di
terreno, sia per i prodotti che dal suo allevamento potevano essere ottenuti:
il latte, il formaggio, la carne, i capretti e la pelle. Dal capretto, una
volta abbattuto, si otteneva il caglio, necessario per la preparazione del
formaggio. Si otteneva da una parte dell’intestino chiamata appunto càggju,
una sacchetta dove ristagnava il latte di cui si era nutrito in vita il
capretto. Lu càggju veniva tagliato e poi nuovamente legato, cosparso di
sale e tenuto in un secchio d’acqua per circa un mese. Il liquido così ottenuto
veniva filtrato e utilizzato per cagliare il latte. Le corna del caprone erano invece usate per
fare manici di coltelli.
“Càpra zòppa no vàli miriàcu”
(Trad.
capra zoppa non vale la sosta)
Le
capre, così come gli altri animali, a volte si riparano sotto gli alberi o nei
cespugli. Una capra zoppa, anche se si riposa per qualche minuto, resta sempre
zoppa; non basta una piccola sosta per curarla. Si usa per esempio quando una
persona ha tante cose da fare e si vuole fermare, ma i lavori vanno fatti
comunque quindi tanto vale continuare. La parola miriàcu significa
“siesta, ozio del meriggio caldo, luogo ombroso in cui meriggia il bestiame”;
esiste anche il verbo miriacà o ammiriacà. Si usa solo per il
bestiame. Per le persone si dice aumbràssi, mettersi all’ombra.
“Nòtti màla, càpra ‘n cònca”
(Trad.
brutta notte, la capra nella conca)
“E’
nòtti di càpra ‘n cònca”
(Trad.
è notte da capre nella conca)
Quando
fa brutto tempo le capre si rifugiano di solito nelle conche; usato per
indicare una notte particolarmente brutta o fredda nella quale è preferibile
restarsene a casa. Le conche prima fungevano anche da fienili, per conservare
la paglia ma anche le provviste. La cunchédda indica una conca di
ridotte dimensioni ma anche un piccolo recipiente di terracotta.
Cavallo
Il
cavallo era utilizzato soprattutto come mezzo di trasporto per le persone, sia
da solo che con lu carruzzìnu, una sorta di calesse a due o quattro
posti. A ballare, a li baddatòggj, alcuni preferivano andarci a piedi perché si temeva
che qualcuno potessero fare qualcosa al cavallo, ad esempio renderlo zoppo,
magari per invidia. Il cavallo veniva usato per arare le vigne, in particolare
quelle dove i filari erano stretti e non era possibile utilizzare i buoi, che
andavano usati sempre in coppia. Il cavallo è stato prima soppiantato dalla
bicicletta, poi dalla lambretta e dalle moto, e infine dall’automobile.
“Ca
no po’ battì lu càddu bàtti la sédda“
(Trad.
chi non può picchiare il cavallo, batte sulla sella)
Se
il cavallo è scappato, il padrone non lo può frustare, perciò se la prende con
la sella. Chi non può dire una cosa direttamente al destinatario se la prende
con chi gli sta intorno. Battì significa battere, ma anche picchiare;
es. si dice no battì li stéddi, non picchiare i bambini; m’à battùtu
significa “mi ha picchiato” e non “mi ha battuto facendo qualcosa”, che si dice
invece m’à gagnàtu.
“Càddu tuccàtu la sédda li
pizzichìggja”
(Trad.
a cavallo escoriato la sella pizzica)
Tuccàtu significa che il cavallo ha una tuccatùra,
una ferita o escoriazione dovuta allo sfregamento della sella a contatto con la
pelle; perciò quando il cavallo viene sellato sente un bruciore perché la pelle
è escoriata. Se una persona ha fatto qualcosa e gli altri parlano di quel
fatto, questa si sente colpita perché è stata lei a commetterlo. La
tuccatùra può essere anche quella provocata ad esempio dallo sfregamento
della scarpa.
“Càddu e muddéri, in chi màni
péri”
(Trad.
cavallo e moglie, in che mani si muore)
Sia
il cavallo che la moglie erano considerati una “proprietà” del marito. La sorte
di entrambi era quindi determinata dal carattere del padrone che si
ritrovavano. Se il marito era buono, la moglie non poteva lamentarsi e così
neanche il cavallo, ma se aveva un brutto carattere, allora li aspettava
probabilmente una cattiva sorte.
“Cal
ànda a càddu è suggjèttu a falànni”
(Trad.
chi va a cavallo è soggetto a cadute)
Il
rischio di cadute è un’evenienza da tenere in conto anche dai cavallerizzi più
esperti; così come quando ci si prepara a fare qualcosa bisogna essere
preparati a subirne le conseguenze. Si usa inoltre per quelle persone che
credono di aver conquistato una certa posizione e la ostentano; devono stare
attente però e non vantarsi troppo perché c’è sempre il rischio di cadere e
ritrovarsi a terra. Falànni significa scendere da qualcosa; si usa anche
per esprimere il modo in cui un vestito sta ad una persona, si dice, ad
esempio, li fàla bè, se gli sta bene.
“Mèddu
càddu zòppu chi no mòltu”
(Trad.
meglio un cavallo zoppo che uno morto)
Indubbiamente
è più utile un cavallo zoppo piuttosto che uno morto.
Bisogna
accontentarsi di quello che si ha, anche se non è proprio soddisfacente. Si può
usare anche nel caso di una persona cara malata; è preferibile averla con sé
anche se non proprio in condizioni ottimali piuttosto che salutarla per sempre.
Gatti e topi
I
gatti erano molto diffusi nella case dei galluresi, per tenere lontani topi e
altri animaletti.
“A
dì c’à magnàtu ràzzi salìti!”
(Trad.
sembra che abbia mangiato topi salati)
Modo
di dire usato quando una persona ha molta sete.
“Più
l’allìsgiani e più àlza la códa”
(più
lo accarezzano e più alza la coda)
Il
gatto, quando viene accarezzato, se ne compiace e alza la coda.
Le
persone che si comportano come il gatto sono quelle che più vengono trattate
bene e lodate, più si approfittano degli altri, comportandosi come se tutto gli
fosse dovuto.
“Fiddólu
di ‘jàtta ràzzi acchjàppa”
(Trad.
figlio di gatti acchiappa i topi)
Come
nel detto tale padre, tale figlio i cuccioli di gatto avranno come i
genitori l’istinto della caccia. Si usa sia per doti positive che negative.
Maiale
Il
maiale era un animale indispensabile nell’economia delle famiglie galluresi. Allevato
allo stato brado, quando si aveva intenzione di farne uso nell’inverno
successivo veniva sterilizzato, grastàtu, dalla primavera precedente in
modo che la carne non avesse un brutto odore e poi veniva messo all’ingrasso ne
la crìna. Quando il maiale, lu mannàli, era grasso al punto giusto
si faceva l’ammazzatòggju di lu pòlcu, un avvenimento che coinvolgeva
anche i parenti della famiglia che si aiutavano reciprocamente. Del maiale non
si buttava niente, neanche le zampe e le orecchie, che servivano per fare li
pidichìni, la gelatina di maiale, che si mangiava a carnevale, spesso
accompagnata con le frittelle.
“Pòlci
d’una chédda, tutt’un làldu”
(Trad.
i maiali dello stesso branco hanno tutti lo stesso lardo)
Così
come i maiali dello stesso branco sicuramente apparterranno alla stessa famiglia,
così anche le persone che appartengono allo stesso ambiente o famiglia, si
somigliano un po’. La chédda è il branco, un insieme di animali, ad
esempio una mandria di pecore. Si usa però solo per gli animali. Se usato per
le persone ha un significato spregiativo.
“Pòlcu
nèttu no ingràssa”
(Trad.
maiale pulito non ingrassa)
Raramente
si vede un maiale pulito, data l’abitudine di rotolarsi nel fango e di smuovere
la terra. Quando i bambini si sporcano durante i giochi non bisogna
preoccuparsi ma lasciarli divertire, liberi di saltare e cadere; tutto ciò fa
bene alla loro crescita e anche al loro appetito.
Volpe
Talvolta
veniva data caccia alla volpe per vendere la pelle ai commercianti che la
conciavano per farne cappotti e sciarpe, prodotti considerati particolarmente
valorosi.
“Lu
macciòni lu pìlu pàldi ma lu ìziu no”
(Trad.
la volpe perde il pelo ma non il vizio)
Nonostante
la volpe spesso perda il pelo durante qualcuna delle sue scorribande non perde
il vizio e ci riprova, così come fanno quelli che non traggono lezioni dalle
proprie esperienze.
“Ca
agnòni si fàci macciòni lu spédda”
(Trad.
chi si fa agnello viene scuoiato dalla volpe)
Se
una persona non è propriamente un agnello, ma in alcune situazioni si comporta
come tale, la volpe, cioè una persona più furba, potrebbe approfittarne.
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